A 3 ANNI GLI HANNO GIÀ SPARATO. MA PER IBOU NON C’È POSTO NEL PAESE DEL “GIÙ LE MANI DAI BAMBINI”

Chissà cosa immagina quando qualcuno scandisce quelle tre sillabe: I-ta-lia. Chissà se glielo hanno detto quanto questo paese tiene ai bambini. Quante battaglie feroci, quanti tweet, quante vesti stracciate pubblicamente, quante volte quella parola – “bambini” – è stata pronunciata invano. Se solo potesse vedere il fuoco sacro che anima i signori ministri mentre si recano in pellegrinaggio nei luoghi dell’indignazione e lanciano strali contro “orchi” e “ladri di bambini”.
In un posto così, chissà, forse Ibou potrà curarsi, dimenticare, costruirsi un futuro, un lavoro, una famiglia. Gli italiani sono capaci di augurare la morte al vicino di casa o di treno, ignorare i più elementari principi di civiltà e tolleranza. Ma, quando si tratta di bambini, diventano all’improvviso madri e padri premurosi e santi protettori del focolare.
Chi glielo dice ora a Ibou che il porto di Lampedusa è chiuso, le acque italiane protette da una cortina navale di ferro e odio? Che la nave che l’ha salvato, la Alan Kurdi, non può sbarcare per ordini superiori. Che se fosse stato per il signor ministro – quello che vorrebbe per tutti i bambini una mamma e un papà – Ibou ora sarebbe tornato in una gattabuia a Tripoli insieme a decine di altri bimbi della sua età separati dai genitori e seviziati per ore, giorni, senza tregua. Chi glielo spiega che, se fosse stato per quel ministro – quello che si precipita a Bibbiano e tuona ad ogni occasione “giù le mani dai bambini” – la barca su cui è seduto ora neanche sarebbe stata lì mentre il gommone si sgonfiava, tra le urla strazianti di 40 persone all’unisono? Che qui non c’è spazio per lui, che non possiamo “compatirli tutti”. Che i bambini sono la cosa più preziosa che abbiamo (dopo i gattini), purché siano bianchi, si chiamino Paolo, Giulia o Antonio, al massimo Michael, che siano “nostri”. In una parola: italiani.

Ibou tutto questo non lo sa. Nessuno glielo ha detto. Non c’è stato abbastanza tempo e, comunque, come glielo spieghi a un bambino di tre anni a cui hanno sparato?
Ibou sa solo che laggiù in fondo, da qualche parte, c’è l’Italia, e che un giorno quella sarà casa sua. Nessuno sa neppure di preciso come si chiama. Ibou è un nome di fantasia, ma le ferite – fisiche e psicologiche – quelle sono reali, lo sono i dieci centimetri di cicatrice che tiene incisi sulla pelle. Ma, in fondo, che importanza ha? Laggiù, all’orizzonte, si intravedono già le prime luci, le prime case, il profilo asimmetrico della costa italiana. Già, l’Italia, il paese che ama i bambini e che fa di tutto per proteggerli.
Benvenuto Ibou, piccolo uomo. Buonanotte.
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